Linguaggi specialistici o LSP

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Linguaggi specialistici o LSP

By Chiara Foppa Pedretti | Published  01/3/2010 | Miscellaneous , Translation Theory , Italian | Recommendation:RateSecARateSecARateSecARateSecARateSecI
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Author:
Chiara Foppa Pedretti
Itália
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Linguaggi specialistici o LSP
Definizione

I linguaggi specialistici o Languages for Special Purposes (LSP) sono definibili come “varietà funzionali-contestuali della lingua” (Berruto 1980a), che si riferiscono, cioè, alla variazione lungo l'asse diatipico e che sono indicate, generalmente, in rapporto al campo professionale o disciplinare al quale appartengono (economia, medicina, ecc.).

Gli LSP non sono linguaggi speciali, poiché non si discostano dalle norme e caratteristiche lessicali, fonetiche, sintattiche e testuali della lingua standard. Tuttavia, si distinguono da essa per l’anormale frequenza di utilizzo di alcune di esse. Per dirla con Gotti, “ linguaggi specialistici si distinguono in genere dalla lingua comune per la specificità del lessico utilizzato (che non coincide in genere con quello comunemente utilizzato nel discorso di tipo generale) e per l’alta frequenza con la quale alcune regole ed elementi della lingua comune appaiono in essi. Inoltre, i criteri di elaborazione di tale lessico e il ricorso più frequente che nella lingua comune a determinati accorgimenti di natura sintattica e testuale obbediscono a dei principi che appaiono in maniera costante nei vari testi specialistici e che si possono quindi considerare caratteristica di tali linguaggi”. (Gotti 1991: 179-180) Tale caratteristica deriva, a sua volta, dalla specificità del contenuto e delle conoscenze condivise dagli specialisti del settore coinvolto. Cortese (1996), sostenendo che la specificità dei linguaggi specialistici va ben oltre il lessico, cita Portina: “E’ […] nel discorso attualizzato dal testo che si ricava la specialità/specificità” (Portina 1978).

Caratteristiche

Senza addentrarsi nel particolare, è possibile individuare alcuni caratteri generali dei linguaggi specialistici che ne permettano una visione d’insieme: un elenco completo, seppure molto generalizzato, è stato fornito da Hoffmann (1984), il quale ha individuato undici caratteristiche:

  1. esattezza, semplicità e chiarezza

  2. oggettività

  3. astrattezza

  4. generalizzazione

  5. densità di informazione

  6. brevità o laconicità

  7. neutralità emotiva

  8. mancanza di ambiguità

  9. impersonalità

  10. coerenza logica

  11. uso dei termini tecnici definiti, simboli e figure.


Un aspetto peculiare dei linguaggi specialistici è poi la sua “variazione verticale”. Questa indica il grado di specializzazione del messaggio in rapporto alle diverse situazioni in cui si comunica su un argomento legato al proprio ambito professionale o disciplinare. Al primo livello lo specialista si rivolge ad altri specialisti: in un primo caso, questi ultimi provengono dal suo stesso settore (livello intraspecialistico) e, pertanto, condividono con lui un ampio background di conoscenze e comprendono i termini tecnici da lui utilizzati. In un secondo caso, invece, egli comunica con specialisti di altri settori (livello interspecialistico). Queste prime due situazioni danno origine alla “scientific exposition”.
Al secondo livello lo specialista si rivolge a non-specialisti: deve perciò illustrare tutti i concetti e usare i termini tecnici appropriati, ma fornendone una definizione. Lo scopo principale è quello dell’istruzione: si vogliono formare nuovi specialisti, dotando i lettori di una “secondary culture” relativa all’ambito interessato. Essendo questo il caso di manuali di istruzioni, libri di testo e lezioni, si identifica questa situazione con la “scientific instruction”.
Infine, al terzo livello lo specialista ha un intento divulgativo ed ha come pubblico, pertanto, le persone comuni: anche il suo linguaggio dovrà essere meno tecnico possibile, come nel caso di un articolo su una rivista non specializzata. Questa situazione dà, infatti, origine al “scientific journalism”.

Altrettanto impossibile, nonché limitante, è assegnare agli LSP un'unica funzione linguistica: Gotti, utilizzando la classificazione di Jakobson (1960), ha osservato che nei linguaggi specialistici è molto frequente la funzione referenziale, relativa al rapporto tra contenuto e contesto, “in quanto essa privilegia il rapporto […] con la realtà specialistica trattata” (Gotti 1991: 139-140). In molti casi sono presenti anche la funzione conativa, relativa alla tendenza ad avere degli effetti extralinguistici sull'emittente, effetti cioè che non si limitano alla pura comprensione linguistica (come nel caso dei manuali di istruzioni) e la funzione fatica, che stabilisce e garantisce il contatto tra emittente e ricevente e che risponde all’esigenza di chiarezza e di assenza di incomprensioni.
Altri studiosi, come, ad esempio, Trimble (1985), hanno rilevato altre funzioni tipiche degli LSP: descrizione, analisi, classificazione, generalizzazione, ipotesi, argomentazione, ecc. E’ ancora Gotti ad osservare: “Anche se non esclusive del linguaggio specialistico, queste forme vi ricorrerebbero in modo rilevante e costante, e gli utenti sarebbero molto più consci della loro strutturazione e del loro valore pragmatico. Queste funzioni sarebbero inoltre riscontrabili in tutte le lingue e potrebbero quindi essere considerate di tipo universale”. (Gotti 1991: 141)
E conclude, confrontando i linguaggi specialistici con la lingua comune: “[…] come nei testi generali, diverse funzioni possono essere presenti nello stesso testo specialistico; ad esempio, nello stesso testo si possono incontrare parti fatiche, parti informative, parti valutative, parti conative, ecc. Però, a differenza dei testi di carattere generale, tali parti sono più nettamente separate fra di loro e sono più chiaramente evidenziate (molto spesso tramite l’uso di titoli e inserimenti di spazi nel testo), così che anche in questo caso si affermi il principio della chiarezza comunicativa e della massima organizzazione del discorso”. (ibid.: 141)

I linguaggi specialistici, infine, presentano delle caratteristiche lessicali, sintattiche e testuali ben riconoscibili. Dal punto di vista lessicale, anzitutto, essi possono essere definiti monoreferenziali; ciò significa che, in un determinato contesto, ad ogni termine è attribuibile un solo significato, poiché, come si è già affermato, nei linguaggi specialistici si privilegia l’aspetto denotativo: ecco perché il tono rimane quasi sempre neutro e caratterizzato da non-emotività. A ciò si aggiunge la precisione, che fa sì che ogni termine si riferisca al proprio significante in maniera immediata. La trasparenza degli LSP, inoltre, permette rapido accesso al significato dei termini utilizzati ed è garantita da precisi processi di formazione delle parole (ad esempio, suffissi e prefissi di derivazione greca e latina, il cui significato è, per l’appunto, trasparente). Alcuni neologismi, poi, vengono coniati utilizzando la “derivazione zero” (che evita, cioè, l’uso di affissi), fondendo due lessemi, riducendone uno all’interno o nella terminazione, giustapponendo due sostantivi (eliminando elementi quali le preposizioni) o facendo ricorso ad abbreviazioni ed acronimi. Ciascuno di questi espedienti risponde al bisogno di sinteticità, ovvero di esprimersi nella forma più breve possibile. Per evitare ambiguità, inoltre, si tende a mantenere caratteri molto conservatori: questo concetto è espresso dal criterio del tradizionalismo.
Tuttavia, si riscontrano in alcuni casi delle caratteristiche specularmente opposte a quelle fin qui elencate: l’ambiguità, per esempio, è spesso appositamente ricercata da specialisti di settori come, ad esempio, l’economia, i quali sostengono la necessità di un linguaggio meno rigido e capace di descrivere fenomeni complessi. Sempre a proposito del linguaggio dell’economia, considerando i criteri finora elencati, è possibile rilevare che quanto detto nel paragrafo precedente (“Funzione”) riguardo alla parziale soggettività dei testi economici ha un’influenza anche su di essi. Per esempio, la necessità di persuasione riduce la tendenza alla sinteticità, favorendo enunciati e paragrafi più lunghi e leggibili. Anche la non-emotività potrebbe venire parzialmente meno per lo stesso motivo. In altri linguaggi settoriali, invece, si possono rilevare fenomeni di sinonimia, imprecisione o ridondanza. Tutti, infine, data la continua evoluzione scientifica e, necessariamente, lessicale delle discipline, possono presentare il carattere dell’instabilità semantica.
Gotti suggerisce che “il processo di evoluzione semantica molto spesso trae origine dalla specializzazione nel significato di una parola appartenente alla lingua comune” (Gotti 1991: 44) . Una variante di tale fenomeno è la “metaforizzazione”, tramite la quale si assegna ad un termine già esistente un nuovo significato, che avrà il vantaggio della trasparenza di significato: per questa ragione, è una tecnica utilizzata di frequente nel linguaggio della divulgazione, rivolta a non-specialisti. Speculare a tale rideterminazione semantica è il criterio della produttività, anch’esso caratterizzante i linguaggi specialistici e consistente nell’ingresso di termini tecnici nel vocabolario comune.

Sotto il profilo sintattico, è da osservare che i fenomeni morfosintattici che si riscontrano nei linguaggi specialistici non sono diversi rispetto a quelli della lingua comune, se non nella loro maggior frequenza. Per esempio, la tendenza alla sinteticità e alla compattezza dà origine all’omissione di elementi frasali, la quale non compromette la comprensibilità del testo, in quanto tali elementi sono deducibili dal contesto o dal bagaglio di conoscenze condivise dagli specialisti. Più in generale, gli LSP sono, anche in questo caso, caratterizzati da sinteticità espressiva, ottenuta con vari mezzi, quali l’eliminazione delle proposizioni relative (per esempio, tramite la sostituzione con aggettivi derivati tramite affissazione e l’omissione di soggetto e ausiliare in presenza di una forma verbale passiva), l’utilizzo di forme verbali non finite (gerundio, participio presente e passato, infinito) o la premodificazione, altra caratteristica lessicale fondamentale, almeno per quanto riguarda la lingua inglese (in cui il fenomeno tipico è l’aggettivazione nominale, consistente nell’utilizzare un sostantivo in funzione di aggettivo rispetto a un altro, ad esso posposto). Tuttavia, soprattutto quando si dà origine a sintagmi nominali di notevole lunghezza, il guadagno in termini di concisione è bilanciato da una perdita in chiarezza, compensabile solo dalla condivisione di un background di conoscenze. A ciò si collega l’ampio ricorso alla nominalizzazione, che favorisce l’uso di sostantivi, piuttosto che di verbi, nell’indicare azioni e procedimenti e, come conseguenza, l’alta densità lessicale dei testi specialistici: il verbo, infatti, perde valore e, contemporaneamente, aumenta il numero di elementi lessicali, o content words, rispetto al numero totale di parole. Spesso, così, è possibile ottenere una struttura del periodo molto semplice: gruppo nominale + verbo + gruppo nominale. Gotti, però, precisa: “[…] anche se la struttura superficiale risulta semplificata, la più alta densità lessicale della frase e la più complessa strutturazione dei sintagmi nominali ne rende comunque impegnativa la decodificazione. […] Un altro fattore che rende più difficile la decodificazione dei testi specialistici consiste nella lunghezza del periodo. I testi specialistici appartenenti al codice scritto, infatti, si strutturano in periodi mediamente molto più lunghi di quelli della lingua comune”. (Gotti 1991: 83-84)
Per quanto riguarda l’uso dei verbi, si è già citata l’alta frequenza dei tempi non finiti. Tra i tempi finiti, quello più utilizzato è il presente indicativo, il quale permette l’esposizione delle informazioni come verità generali e oggettive. E’ possibile riscontrare anche il ricorso alla forma imperativa, per esempio nei manuali tecnici, e alle forme del passato indicativo, come nel caso delle relazioni. Tuttavia, nei testi con altre funzioni oltre a quella referenziale, come quelli argomentativi (di argomento economico, ad esempio, per le ragioni già esposte), c’è un uso dei tempi più diversificato ed ampio, e, in definitiva, più vicino all’uso della lingua standard. Inoltre, molto utilizzata è la forma passiva del verbo, che spersonalizza il messaggio e pone in primo piano le azioni e i risultati, piuttosto che gli agenti, garantendo oggettività al discorso (tuttavia si noti che, talvolta, in presenza di forme impersonali, si introducono elementi di uno stile più personale quali gli aggettivi possessivi di prima persona, generalmente plurale). Ancora una volta, menzione a parte meritano i testi argomentativi, nei quali è più frequente l’utilizzo della prima persona per mettere in evidenza la posizione dell’autore. Rari sono i casi in cui ci si rivolge direttamente al lettore: infatti l’obiettivo è, generalmente, quello di presentare le proprie conclusioni come logiche e supportate da fatti e argomentazioni, senza che esse siano percepite come imposte.

Infine, le caratteristiche testuali sono quelle che, nel complesso, più si discostano dall’uso comune. Si veda, ad esempio, la tendenza a evitare strumenti di coesione testuale quali la referenza anaforica o la sostituzione in favore della ripetizione lessicale, che conferisce maggior chiarezza al discorso. Per garantire coesione, ma anche per denotare la funzione della frase che introducono, sono molto utilizzate le congiunzioni: Huddleston ha rilevato che le più frequenti sono quelle che esprimono deduzione logica, seguite da quelle che esprimono contrasto, certezza e dubbio, continuità semantica, esemplificazioni (Huddleston et al. 1968). Un altro mezzo di coesione testuale è la progressione tematica, molto curata dagli specialisti, ma altrettanto vicina all’uso standard nella maggior parte dei casi. A questo concetto si lega il problema della struttura di un testo specialistico. Quelli di natura economica, ad esempio, sono generalmente composti da: l’introduzione, che prepara il campo alla ricerca presentata esponendo i risultati raggiunti fino a quel momento nell’ambito coinvolto e segnalando l’obiettivo che si perseguirà e la metodologia utilizzata a tal fine, lo sviluppo della tesi e, infine, la conclusione, la quale riassume la tesi e i risultati ottenuti.

Traduzione

Non bisogna dimenticare, comunque, che anche i linguaggi specialistici assumono, nelle varie lingue, caratteristiche diverse. Questa considerazione è applicabile, soprattutto, a livello semantico: nelle culture occidentali, infatti, gran parte della terminologia tecnica ha una base comune, data principalmente dall’affissazione di derivazione greca e latina, che fa sì che molte parole si assomiglino notevolmente da lingua a lingua.
Più in generale, non si può dimenticare che, essendo l’inglese ormai considerato una sorta di “lingua franca”, oggi vi è una forte tendenza all’uso di parole anglosassoni: i prestiti e i calchi linguistici non sono un fenomeno recente, ma un utilizzo così massiccio di termini inglesi è, di certo, relativamente nuovo. Rossini Favretti va oltre questa posizione affermando che “l’instaurarsi di nuove situazioni comunicative ha certamente determinato un’anglicizzazione delle lingue europee ma ha anche contribuito […] ad agevolare la formazione di un isomorfismo sintattico fra le lingue europee e una standardizzazione della nomenclatura”. (Rossini Favretti 1996)
L’inglese, dunque, influenza in modo massiccio la comunicazione all’interno della comunità internazionale, in particolare nel settore scientifico e nel business. A questo proposito, non si può non citare Cozzi, il quale ha segnalato un miglioramento delle traduzioni in questo settore non solo dall’inglese all’italiano, ma anche nella direzione opposta; tale miglioramento è stato favorito non solo dal fatto che gli economisti italiani utilizzano il linguaggio tecnico inglese: in più, vi è “già nella stesura dell’originale un adeguamento alle convenzioni retoriche e stilistiche della lingua d’arrivo” (Cozzi 1996).

La nozione di diversità culturale, comunque, va sempre tenuta presente, poiché, se gli obiettivi generali dei linguaggi specialistici restano gli stessi (oggettività e chiarezza in primis), i mezzi per perseguirli possono variare da una lingua all’altra. Basteranno due esempi a chiarire tale concetto. A livello sintattico, si consideri la tendenza alla spersonalizzazione del discorso: l’uso del passivo a tal fine è presente in varie culture, ma in inglese è l’unico mezzo disponibile, mentre in altre lingue esso è utilizzato con frequenza diversa, grazie anche all’esistenza di forme impersonali (ad esempio, si in italiano, man in tedesco o on in francese). A livello testuale, invece, è esemplare la variazione da lingua a lingua della struttura testuale. Confrontando inglese e italiano, si può notare, innanzitutto, come nel primo caso l’abstract> sia inserito prima del testo, mentre nel secondo esso sia posposto; secondariamente, mentre la conclusione di un testo specialistico italiano occupa all’incirca due pagine riassumendo dettagliatamente i risultati dell’indagine ed estendendone la validità nel suo campo, quella di un testo inglese generalmente non supera la mezza pagina e serve principalmente a segnalare la posizione della ricerca presentata nel panorama del dibattito scientifico in quel settore.

Resta sottinteso che tali diversità devono sempre essere tenute presente dal traduttore, che dovrà prestare attenzione a tutti i livelli della lingua (testuale, sintattico e lessicale), in combinazione con le diverse norme in vigore nei diversi contesti linguistici nel quale egli si sta muovendo.


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